Il rame nella cultura locale: storia, curiosità, usi e costumi
Agnone nel passato era noto, e lo è tuttora anche se in misura minore, per essere il paese dei ramai. Per secoli questi umili artisti hanno girato con i loro manufatti tutte le fiere e tutti i mercati dei paesi circostanti, facendo conoscere e caratterizzando il loro paese d’origine.
Quando qualcuno di loro decideva di trasferire la sua attività altrove, allora diventava stanziale, apriva una bottega e lavorava il rame in loco.
La dinastia più numerosa dei ramai agnonesi porta il cognome di Cerimele. Per anni i Cerimele hanno gestito le fonderie, lavorato il rame, commercializzato i prodotti e tramandato il mestiere ad altri operatori. Terra d’approdo dei ramai migranti era, ovviamente, l’Abruzzo, ma non si escludevano anche altre regioni.
Tutti gli abitanti di questo bellissimo paese dell’Alto Molise hanno avuto a che fare in modo diretto o indiretto con il rame, attorno a cui nel passato si è mossa una delle economie più fiorenti, che ha determinato ricchezza e lavoro. Mia madre mi raccontava che quanto più rame una famiglia possedeva, tanto più era benestante e altolocata.
Quando Mussolini chiese oro per la patria, gli agnonesi diedero rame, che rappresentava il vero tesoro di quel paese. Tempo addietro, (anni ’80), facendo dei lavori di ristrutturazione in una casa, gli operai hanno trovato, murata nel muro, una discreta quantità di rame. “Il tesoro, il tesoro” hanno urlato gli addetti ai lavori. Ci piacerebbe pensare che l’avessero murato per non darlo alla patria, ma se anche non fosse così, è la riprova dell’enorme valore affettivo oltre che economico che gli agnonesi nutrono per questo prezioso metallo.
Il rame rappresentava una voce cospicua nella dote delle giovani spose sia per il valore in se, sia perché l’attività di una donna di casa ruotava attorno a tali manufatti. Ogni attività domestica aveva uno specifico recipiente di riferimento. A seconda dei locali della casa cambiava la tipologia. In cucina trovavi, a cominciare dai recipienti più piccoli:
- mestolo fondo piatto (ru manìar)
- mestolo fondo rotondo (ru cuppòin)
- paletta forata (la cucchiarella)
- imbuti di varie misure (ru muttill)
- oliera (ru lambarùal)
- cioccolatiera (la ciqquilatòira)
- pilzinotto (ru plznòtt)
- marmitta (quella che si appendeva al fuoco per cuocere giornalmente la pasta)
- scolapasta (ru scola-bbreud)
- tegami di varie dimensioni e fogge (tijella e vhssaura)
- ruoti (di tutte le misure, anche con coperchio su misura per cuocere in umido)
- bottiglia di rame (buttiglia, da riempire d’acqua calda e portarsi a letto la sera)
- scaldini (da usare come piccoli bracieri portatili)
- forno a campana (per fare dolci, fuoco sotto e fuoco sopra)
- bacinella (ru vaccioìl, per le abluzioni mattutine)
- soffietto (zufflatìur, quello a mantice)
- Braciere (ru vrascìar)
In un angolo della cucina c’era poi l’immancabile tina che conteneva l’acqua da bere. Chi aveva sete prendeva ru manìer che si trovava appeso al bordo della tina e beveva, senza che ci si dovesse preoccupare dell’igiene. Che sapore quell’acqua, un sapore tutto particolare, il sapore del rame!
Una collocazione a parte avevano la conca e il passapomodoro. Il passapomodoro era un recipiente forato, largo e piatto (con un diametro di circa 60 cm), fatto esattamente a misura della conca, anch’essa larga ma più profonda (una conca appunto). Serviva a raccogliere la polpa di pomodoro quando, con movimenti circolari e successive pressioni della mano, si voleva separare la buccia e i semi dal resto del frutto.
Tutti i pezzi erano appesi in bella mostra nella rastrelliera in cucina, puliti e lustri come il culetto dei neonati. Una volta all’anno venivano lucidati con aceto e sale e fatti asciugare al sole affinché non rimanesse traccia di umidità. Lo si faceva generalmente nel periodo pasquale per cancellare le tracce dell’inverno. Tutti i vicoli, in quell’occasione, sembravano mostre-mercato dell’artigianato.
Nel fondaco della case, nascosti agli occhi dei passanti, stazionavano poi i vari paioli, quelli impresentabili perché sporchi di nerofumo. Non salivano, ahimé, agli onori delle vetrine ma subivano comunque un trattamento di bellezza per togliere l’eccesso di fuliggine.
Si trattava di paioli di tutte le misure, adatti ai diversi usi: i pomodori, le conserve, il maiale, il sapone, il bucato ecc… Grosso modo la classificazione era la seguente:
- paiolo piccolo (ru cuttrllucc)
- paiolo (ru cuttrìall)
- paiolone (ru cuttrllàun)
- caldaia piccola (la callarella)
- caldaia (la callàra)
- caldaione (ru callaràun)
Ru callaraun serviva per fare il bucato pesante una volta al mese. La sera prima si metteva a bagno la biancheria da letto in acqua calda e liscivia. La mattina successiva, di buon ora, arrivava la lavandaia che iniziava il lavoro e finiva nel pomeriggio inoltrato.
Una delle usanze più caratteristiche era il bagno dei bambini all’aperto, d’estate.
La mamma, nei giorni canicolari, esponeva al sole “la callàra” piena d’acqua. Verso le tre del pomeriggio, (non sia mai che poi prendono freddo), i bambini entravano in acqua e vi sguazzavamo meglio che in una piscina. Il sapone, eccezionalmente quello profumato, provvedeva a scrostare lo sporco dell’anno. Li dove né vasca né doccia esistevano, in inverno ci si lavava a pezzi e d’estate i grandi al fiume, i piccoli alla “callara”. Quanti giochi in quella callara, che divertimento, che spasso! Era la nostra piscina all’aperto, consentita per un arco di tempo breve nella vita di ciascuno di noi poiché ben presto, da un anno all’altro, le nudità diventavano imbarazzanti. Io li rivedo quei bambini felici, li rivedo con gli occhi della mente: sguazzavano in questa improvvisata piscina, anche due o tre per volta, anche quelli dell’intero vicinato, insaponati e gioiosi, niente paletta né secchiello, solo manine battenti sul pelo dell’acqua che se una goccia arrivava loro in bocca, aveva necessariamente quel sapore li, il sapore del rame. Il nostro essere di oggi è legato indissolubilmente a queste esperienze. Sono loro, i nostri ricordi, che ci fanno sentire unici e senza uguali, perché noi, e solo noi, li abbiamo vissuti, non altri.